5. Sperimentare la fragilità e vivere il proprio morire

L'ultima area antropologica che intendiamo affrontare è quella decisiva per tutti. Riguarda l'esperienza della vasta gamma di fragilità che toccano la vita fino all'ultima fragilità che è la morte. Abbiamo già menzionato tutte le fragilità affettive. Aggiungiamo quelle relative ai ruoli, come la perdita di un lavoro, ma anche ogni fallimento educativo. Parliamo delle malattie fisiche e psichiche (le più dolorose, che qualcuno ha definito "il dolore disabitato"), delle perdite di una persona cara (i lutti), dell'invecchiamento (constatiamo che le nostre energie diminuiscono), fino al proprio morire.

Qui potremmo dire che ci troviamo nel campo della ricerca di senso decisiva, che da sempre ha abitato l'uomo: l'integrazione del limite, il senso del morire nelle sue infinite sfaccettature, la propria morte.

Il senso qui ha due esiti possibili: la disperazione o la speranza. Questa può essere coltivata come speranza per vivere le esperienze di solitudine, di malattia, di morte, fino a divenire la chiave possibile per affrontare la propria morte come compimento della propria esistenza e non come fine (differenza tra il crepare e il morire). Il morire può diventare il massimo atto umano come affidamento finale alla vita che prevarrà oltre la morte, grazie alla promessa che l'ha sempre abitata. Questo modo di accettare il limite e il morire non è esclusivo di chi ha una fede. È proprio di chiunque abbia vissuto la sua vita donandola.

Siamo però anche nel cuore della fede, dell'annuncio del Dio della vita, della rivelazione della pasqua di morte e risurrezione del Signore e dell'affermazione del Credo: "Credo nella risurrezione della carne e nella vita eterna". Siamo nel kerigma pasquale.



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